Il fatto di nascere, crescere, maturare ed, inevitabilmente, declinare e scomparire, non sempre ci concede il regalo e la gioia di avere potuto essere, esistere ed agire come avremmo avuto la capacità o come avremmo voluto.
La nostra esperienza terrena, infatti, è un continuo e costante tirocinio… E’ un duro
apprendistato che è generalmente condizionato – per una certa frazione – dall’habitat
naturale nel quale viviamo o da cui siamo scaturiti e, per il resto, influenzato, provocato e/o
determinato da noi stessi.
Contrariamente all’opinione più diffusa, però, siamo noi stessi, in ultima analisi – e non il
retroterra politico, economico, sociale e culturale di cui facciamo parte o siamo parte
integrante – che circoscriviamo e fissiamo l’ampiezza, l’intensità e l’incisività del nostro
essere, del nostro esistere e del nostro agire. E questo, qualunque sia o possa essere la
scala gerarchica delle nostre effettive qualità intellettive, delle nostre evidenti e spontanee
sensibilità spirituali, delle nostre concrete e sostanziali capacità materiali.
Il retroterra politico, economico, sociale e culturale, incomincia semmai a giocare un ruolo determinante o predominante nei confronti del nostro essere, del nostro esistere e del nostro
agire, soltanto nel momento in cui, noi stessi, accettiamo – direttamente o indirettamente, volontariamente o involontariamente, consapevolmente o inconsapevolmente – di mettere “tra parentesi” il significato ed il senso della nostra unicità, della nostra originalità e della nostra irripetibilità, affidando supinamente alla societas o a terze persone, il diritto/dovere di
decidere e di disporre – indipendentemente da noi – del nostro essere, del nostro esistere e del nostro agire. Questo, ancora una volta, a prescindere dal fatto che, in natura, esistono (e nessuno lo può negare!) degli uomini che sono chiaramente e manifestamente leader e degli uomini che sono (o preferiscono essere) nascostamente o palesemente gregari.
In sé per sé, infatti, essere leader o gregario nel contesto di una qualunque società umana, non è affatto una qualità, né un difetto. E’ semplicemente una funzione: quella che “madre natura” ha voluto assegnarci, sulla base dell’arcana ed indecifrabile combinazione di “doti”
e/o di “tare” che ci ha voluto personalmente riservare.
Diciamo, per riassumere, che è un dato di fatto.
Insomma, siamo quello che siamo. E nulla e nessuno – fino a prova del contrario – potrà mai mutarci o trasformarci in ciò che non siamo, né potremo mai essere.
Possiamo, però, se lo desideriamo o lo vogliamo, affinare, migliorare o perfezionare la nostra natura, a partire da due semplici atti di volontà:
Naturalmente, se non vogliamo o non riteniamo utile o opportuno cercare di affinarci,
migliorarci o perfezionarci, possiamo:
In altre parole, siamo quello che siamo, ma possiamo senz’altro diventare ciò che
desideriamo o vorremmo essere, se ci limitiamo esclusivamente a conoscerci in profondità
e ad investire, nelle possibilità che la natura ci ha assegnato o concesso, il massimo degli
sforzi che le nostre doti, capacità e/o abilità naturali ci permettono di spendere o di far valere.
E’ il concetto greco di agón, agônos (derivato di ágein, “condurre”: Erodoto – Storia delle lotte fra Greci e Persiani 2, 91; 5, 102; Platone – Le Leggi 658a; Tucidide – Storia della guerra del Peloponneso 3, 104; Aristofane d’Atene – Plutus 1163; Aristotele – Retorica 1, 2, 13; Plutarco – Demetrius 22) che nulla ha a che fare o a che vedere con l’odierna ed incoerente nozione di “competizione”. Lo stesso dicasi, dei significati greci di agonismós
(lotta, combattimento) e di agonistés (chi lotta fisicamente o con l’intelletto) quando tentiamo di paragonarli con quelli post-classici di “agonismo” e di “concorrente”.
Gli antichi Greci, infatti – che erano assolutamente coscienti che ogni uomo è unico, originale
ed irripetibile (e, di conseguenza, complementare… – da cui la nozione aristotelica di zoon
politikon o “animale politico”: quell’animale, cioè, che si affina, si migliora, si perfeziona –
dunque, si civilizza – vivendo in armonia e collaborazione con gli altri, nel contesto della
Polis o Città/Nazione/Stato), non tentavano mai di misurare sé stessi con i loro simili, per
cercare vanamente di affermare un contraddittorio e paradossale “primato universale” delle
capacità umane o un’innaturale e chimerico “parametro” di apprezzamento o di valutazione
generale degli esseri viventi (un “primato” o un “parametro” fondato, per giunta, come
avviene da circa 1700 anni, sull’obbligatoria ed inevitabile sconfitta e consequenziale
umiliazione fisica, psichica o morale dell’altro!). Al contrario, prendendo a pretesto la
competizione con i loro simili, incrociavano reciprocamente le armi delle loro rispettive
qualità, predisposizioni e destrezze intellettuali, fisiche o morali, soprattutto per misurare il
limite contingente delle loro individuali e specifiche qualità o capacità. E questo, sia per tentare di migliorare le loro potenzialità naturali che per avere una qualunque chance di
potere eventualmente cercare di riuscire a superare o sorpassare i propri limiti.
Affinare, migliorare, perfezionare ed, eventualmente, oltrepassare le proprie qualità o
capacità – nel contesto della propria natura – è senz’altro possibile, ma – per potere
realmente riuscire a farlo – è prioritariamente indispensabile focalizzare e comprendere ciò
che, in realtà, significa essere e che cosa vuole dire, al contrario, apparire.
Dal tardo latino, essere (per il classico esse – a sua volta, derivato dalla radice indoeuropea
es–), il nostro omonimo verbo intransitivo (essere) – nel senso che ci interessa nel contesto
di questa disanima – significa soprattutto possedere una precisa identità o natura.
Un’identità ed una natura che sono chiaramente ed inequivocabilmente precisate e
confermate, sia dalla derivazione essentia (dal latino esse) – che, a sua volta, significa
essenza; sia dal participio presente del verbo esse (cioè, ens) che, in filosofia, traduce il
greco ôn (essenza), così come il vocabolo latino essentia individua, decifra e traspone
glottologicamente il termine greco ousía (sostanza).
Il verbo apparire, invece (dal latino: ad + parere) – che i “moderni” (probabilmente, in obliato
ossequio al latino maccheronico o cristiano del IVº secolo che con il vocabolo, apparitio,
tendeva direttamente e non ingenuamente a riferirsi all’ “apparizione” di Yehoshuà o Yéshuà”
– il nostro Ièsus o Gesù/Cristo, per intenderci – ed al conseguente ed obbligatorio riguardo
che, teologicamente e praticamente, gli si doveva…), preferiscono relegare e confinare nella
ristretta cerchia di alcune sue tarde e marginali accezioni, come apparire, mostrarsi; oppure,
presentarsi allo sguardo, mostrarsi alla vista, ecc. – ha in origine, un significato ed un
senso ben diversi da quelli che abbiamo l’abitudine di attribuirgli: quelli, in particolare,
di obbedire, sottomettersi (Cicerone, Tusculanae disputationes 5, 36; De officiis 1, 84; 2,
40; De re publica libri VI 2, 61; Seneca, De beneficis 3, 20, 2; C. Velleius Paterculus,
Historia Romana 2, 23, 6; Aulo Gellio, Nocte Atticae 2, 7, 12; Tito Livio, Ab urbe condita libri
XLV 9, 32, 5; Tacito, Annales 1, 21; ecc.); oppure, cedere a (Cicerone, Orator ad M.
Brutum 202; In P. Vatinium testem interrogatio 2; Epistulae ad Atticum 2, 21, 4; ecc.); o
ancora, essere sottomessi a, sotto la dipendenza di (Cesare, De bello civili 3, 81, 2).
E’ ciò che avviene, purtroppo, ai nostri giorni, quando i nostri contemporanei, e soprattutto le
giovani generazioni (nella loro quasi totalità, tutte vittime ignare e/o inconsapevoli della
colonizzazione culturale che – volens, nolens – da più di 1 700 anni, ha intellettualmente e
moralmente sottomesso le nostre società ai dogmi artificiosi ed innaturali della visione biblica
dell’uomo, della società e del mondo, nonché a quelli successivi e laicizzati delle sue diverse
e variegate derivazioni o ramificazioni ideologiche), credendo di “essere alla moda” e/o di
incarnare o di rappresentare il coincidente o corrispondente “modello di uomo dell’avvenire”
che – in forza all’ultima modanatura della medesima colonizzazione (l’attuale religione
globalista) – impazza e fa furore ai quattro angoli del nostro pianeta, preferiscono
individualmente o collettivamente “fare come gli altri”… Preferiscono, cioè, “mettere tra
parentesi” il significato ed il senso della loro vita e delle loro imprescindibili essenzialità, per
tentare stoltamente di identificarsi o di rassomigliare a delle immagini statiche e
stereotipiche di ciò che essi stessi pensano di prediligere o ritengono vada loro
perfettamente a genio.
Il tutto, naturalmente, senza accorgersi che quelle “immagini” o quei “modelli di vita”, altro
non sono, in realtà, che il risultato finale di un’intensa e mirata propaganda, corredata da
specifici ed inesorabili riflessi condizionati, che – dopo essere stata abbondantemente
assorbita dalla loro psiche ed involontariamente digerita e riciclata dal loro mentale – viene di
nuovo sprigionata ed espressa dal loro ego, sotto forma di “spontanea” ed omogeneizzata
“scelta personale”.
In altre parole: credendo di scegliere, i nostri contemporanei non scelgono affatto ciò che
essi immaginano sia la loro scelta, ma scelgono semplicemente ciò che “altri”,
indipendentemente da loro, hanno già deciso che si dovesse scegliere. E senza volerlo e
senza saperlo (e probabilmente, senza nemmeno accorgersene o sospettarlo!)
obbediscono ciecamente ed inconsapevole alla volontà di chi – per scopi strettamente
commerciali o finanziari (ad esempio: la legge dei grandi numeri…); oppure, imperialistici… ;
o ancora, di usuale e redditizia dominazione dei mercati – ha l’oggettivo e comprensibile
interesse di distruggere e cancellare ogni genere di originalità o specificità umana, per
meglio spacciare la sua camelote e riempire copiosamente il suo portamonete.
Ancora più grave, però, quando l’agevole e poco impegnativo “sembrare” o “apparire”
(fosse pure quello di chi tenta, in buona fede, di ispirarsi ai Bolscevichi del 1917, agli
Anarchici di Malatesta, ai Fascisti del 1919-1922, ai Repubblichini o ai Partigiani del 1943-
1945!), è addirittura preso a modello dai cosiddetti “antagonisti” o “rivoluzionari della
domenica” che preferiscono ugualmente sottomettersi ai criteri di omologazione del
medesimo sistema che, a parole, vorrebbero combattere.